Il Consiglio di Stato osserva che, in termini generali, alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo, salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge.

Infatti si tratta di una regola di comportamento e non di validità.

L’art. 2-bis della legge sul procedimento, da un lato, prevede l’obbligo di terminare il procedimento amministrativo entro un termine ragionevole, e dall’altro correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato.

Il ritardo, osserva il Collegio, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una possibile forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione. Resta inoltre ferma la possibilità per gli interessati di chiedere la condanna dell’Amministrazione a provvedere ai sensi dell’art 117 c.p.a.

l Consiglio di Stato richiama la giurisprudenza europea ‒ e in particolare della Corte di giustizia (sentenza 21 settembre 2006, in C-105/04, punto 42) – per cui nei procedimenti relativi al regolamento n. 1 del 2003 deve ritenersi che il superamento del termine ragionevole di conclusione del procedimento (da computarsi di volta in volta alla luce della specifica disciplina di settore) possa costituire un motivo di annullamento delle decisioni che constatino la commissione di infrazioni soltanto qualora risulti provato che la violazione del principio del termine ragionevole ha pregiudicato i diritti della difesa delle imprese interessate, ridondando in un vizio della funzione pubblica.

Al di fuori di tale specifica ipotesi ‒ conclude il Collegio ‒, il mancato rispetto dell’obbligo di decidere entro un termine ragionevole non incide sulla validità dell’atto. Leggi sentenza